venerdì 10 febbraio 2012

un'altro buon motivo per fare il pane...




L'articolo di Repubblica sul pane low cost che ha fatto scandalo:
di Paolo Berizzi, da Repubblica 22 gennaio 2012 — pagina 1 - 22 sezione: PRIMA PAGINA
Copertoni nei forni così cuoce il pane low cost - Copertoni e bare nei forni romeni cosi' cuoce il nostro pane low cost Di  PAOLO BERIZZI
E' vero che per arrivare all' alba non c' è altra via che la notte: nei forni della Transilvania, quando nasce il sole, il pane è già partito. Lo sfornano, lo congelano, lo impacchettano. E lo spediscono in Italia. Tutti i giorni. A tutte le ore. SUI Tir frigoriferi e in aereo quello diretto a Nord (molto Veneto e Friuli Venezia Giulia). Via Croazia, e poi attraverso l' Adriatico, se va al Centro o a Sud. A San Marino importato dalla camorra per le mense scolastiche. In Sicilia, in Abruzzo, nel basso Lazio. Altro che truffe telematiche: è la baguette il nuovo miracolo romeno. Ma non si deve dire. Perché con la globalizzazione, in certe filiere alimentari, l' ufficialità può essere sconveniente. E così come in una favola ancora da scrivere il filone di Dracula - costo: meno della metà di quello italiano; durata: due anni; giro d' affari: 500 milioni - diventa un segreto di Pulcinella. Tutti lo sanno, ma è più commerciale dissimulare. «Non abbiamo rilasciato licenze per esportare pane in Italia», dice Grigore Onaciu, capo della direzione agricola di Cluj Napoca. Intrigante la versione dell' associazione panificatori: «Non sappiamo se qualche azienda vende in Italia». Sembrano cadere dalle nuvole anche negli uffici della sanità alimentare: «Autorizzazioni? Boh...». Come mai questa linea d' ombra se poi nei nostri super e ipermercati le derrate di pane romeno precotto vanno alla grande e al Nord un filone su quattro arriva da qui? «Può sembrare insensato, ma troppa pubblicità è negativa», spiega un esportatore che lavora per quattro grandi forni sparsi tra Timisoara, Bucarest e Cluj. Nei periodi di crisi, la concorrenza, lealeo sleale, fa più paura. «Gli ipermercati italiani mollerebbero, e calerebbero le ordinazioni. Ci paragonerebbero a una piccola Cina, e invece siamo un Paese comunitario». Più che una commedia degli equivoci pare un gioco delle parti.E dunque: il viaggio del pane dell' Est conviene raccontarlo al contrario. Partendo dalla data di scadenza, da quei numeri stampati su confezioni essenziali: contrappasso perfetto del packaging ammiccante dei nostri marchi. Una sola scritta. Impressa dalla grande distribuzione per rassicurare restando sul vago: «Prodotto sfornato e confezionato in questo punto vendita». Mavalà. Prodotto sfornato e confezionato qui, lungo il Danubio, nella gelida Transilvania di cui Cluj è stata capitale (oggi con le sue università e la sua azienda siderurgica è la terza e più evoluta città della Romania). E a Costanza, e a Timisoara dove ormai ci sono più imprese italiane che romene, e nella vecchia zona industriale di Bucarest. Immaginate una filiera unica. Con due linee produttive. Una moderna, tecnologicamente all' avanguardia. Come questo bestione inaugurato tre mesi fa a Campia Turzii, mezz' ora di macchina da Cluj. La Lorraine. Una joint venture belga-romena per un impianto modello costato 14 milioni (5 dall' Unione europea) che viaggia a una velocità oraria di 1250 kg di pane. Tutto è automatizzato: dall' impasto dei cereali al confezionamento. Cuociono a 205 gradi, poi una botta a meno 25. I dieci operai sembrano tecnici dei Ris, la pulizia è maniacale. Pensi ai disastri di Ceausescu e invece ti trovi davanti una Cupertino del pane. Dice il viceconsole italiano, Radu Pescaru: «Loro sono un gioiellino. Poi però ci sono anche realtà diverse». Già. A 440 chilometri da Cluj, ecco le banlieues industriali di Bucarest. Nei forni a gestione familiare - ma che immettono merce nei pochissimo snob binari dell' export - filoni e baguette li cuociono replicando o forse ispirando certe abitudini camorristiche napoletane: si utilizza legna di dubbia provenienza, scarti di bare, residui di traslochi e scheletri di fabbriche dismesse (sono migliaia). Persino pneumatici. Le celle frigorifere finiscono il lavoro. Un chilo di pane costa 60-80 centesimi. Massimo, 1 euro. Qui come a Timisoara.A Venezia ce ne vogliono 3,87. Il risultato sono i 4 milioni di chili di pane surgelato prodotti ogni anno da queste parti. Dicono i consumatori di pane low cost che dopo il ritorno in vita nel fornetto - otto minuti a 210 gradi, - fa la sua figura. Il mercato ci crede. Più della metà dei filoni che mangiamo nelle mense e nei bar vengono dai forni di Romania, Moldavia, Slovenia. «C' è molta omertà - ragiona Luca Vecchiato, il più antico forno di Padova, già presidente nazionale di Federpanificatori - la nostra denuncia e l' inchiesta di Repubblica hanno scoperchiato un vaso di Pandora. Adesso si sono chiusi tutti a riccio». Va detto, ed è questo che fa imbestialire i 24 mila fornai italiani, che le importazioni sono perfettamente conformi alla legge. Finché l' Europa non imporrà l' obbligo di indicare la provenienza del prodotto in etichetta, chi fa arrivare pane da fuori può vivacchiare con quel generico «sfornato e confezionato in questo punto vendita». Ben sfornati in Romania. 

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